È un libro in cui la vita si reinventa restando nella vita stessa, un libro di riparazioni, con vicende che si riannodano oltre la morte, le offese e gli inciampi dei giorni più bui. È anche un libro che fa sorridere, Un’imprecisa cosa felice di Silvia Greco, che a capitoli alterni racconta le storie di Marta e di Nino. Ventuno anni lei, ventitré lui, entrambi segnati a lutto da due morti tragicomiche, impossibili da accettare: la zia, la mamma. Non sono le uniche morti assurde, in questo libro, tanto incredibili e buffe da sembrare barzellette. Ce ne sono altre, qua e là, che toccano personaggi minori: sembrano insignificanti sul piano narrativo, ma servono a ribadire che la morte fa parte della vita, è proprio mescolata alla quotidianità.
E allora gli occhi sul mondo si possono chiudere nei modi più impensati, proprio perché banali, minimi, ordinari: c’è chi muore per colpa di un’aspirapolvere, chi prendendo un barattolo di mostarda dalla mensola, chi allacciandosi una scarpa nel bagno dell’ufficio. Non vi sveliamo come muoiono i due grandi assenti di questo romanzo: la zia di Marta e la mamma di Nino, ragazzo fragile che qualche deficit cognitivo lo mostra subito. È un personaggio di forte empatia, Nino, tanto che l’autrice sceglie la prima persona per lui e la terza per Marta. La vita, qui, difende il suo diritto alla felicità, seppure ammaccata e scheggiata, quando ad esempio Marta indossa il tailleur giacca e pantalone blu scuro, un regalo della zia per il primo esame all’università. Un regalo fatto appena qualche giorno prima di andare via senza un saluto, per un esame che non sarebbe stato dato mai. Lei lo prende dall’armadio, ancora nuovissimo, e con quello va al matrimonio della madre Elvira, che dopo anni e anni di solitudine riallaccia i fili della storia nuova con un amore che non le si era dichiarato ai tempi del liceo. E che dire di Nino, che rinuncia alla faccia della sua ragazza-orecchie, ritagliata da un giornaletto di quelli sporchi e incollata su un quaderno, ammirata ogni sera prima di andare a dormire, nella serenità di chi non si mette in gioco con una persona in carne ed ossa. E invece no, Nino ce la fa: getta nel cestino della spazzatura le sue insicurezze, la paura di essere deriso, il quaderno-fantoccio.
E vive. Così come, in altro modo, in altre storie, (ri)vivranno anche gli ornitorinchi con la coda blu, a popolare lo zoo senza gabbie che un giorno, anni e anni prima, aveva sognato proprio zia Marisa, colorando fogli insieme a Marta bambina. Il libro si apre e si chiude con due poesie: una di Pessoa, l’altra di Wislawa Szymborska. Ma la poesia, queste due proprio, si ritrovano disseminate e riconoscibili in diversi passaggi del libro.
L’epilogo, poi, è una mezza paginetta che vi toglierà il fiato, vi farà piangere e ridere insieme. Come solo un’imprecisa cosa felice può, sa. Forse, deve.
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