«Marta seguì tutto in silenzio, seduta sulla poltrona di fronte a loro. Non aveva mai visto lo zio così gattoso. Gattoso per Marta voleva dire la cosa più bella di tutte le cose belle, quando di colpo ti fidi dell’intero universo e allora ti strusci e fai le fusa e dai le nasatine contro il mondo e ogni vibrissa è in sintonia con i pianeti e le pance sono morbide e calde e profumano di casa e pane appena sfornato e se mi scegli io ti scelgo perché è così che deve andare. Se il destino ti prende e ti dice ehi, tu, sì, proprio tu, con il mio potere immenso io ora, adesso, subito, ti nomino sovrano dei felici. Vai e sii gattoso. Devi, puoi.»
Metto subito le mani avanti: questo non è un libro. È un gelato al gusto fior di latte: morbido, bianco, dolce. Come tale l’ho divorato, e per giorni poi m’è rimasto in bocca un sapore buono, zuccherino. Non s’è sciolto lui, il libro-gelato. Sono stata io che, mangiandolo o leggendolo che dir si voglia, mi sono sciolta dalla tenerezza. E anche adesso, quando ci penso, mi torna in faccia un sorriso un po’ scemo, soddisfatto. Un sorriso, appunto, di imprecisa felicità.
Il romanzo (breve, scorrevole, fresco) incrocia le vicende di alcuni curiosi personaggi. Da una parte c’è Marta, cresciuta felicemente con la madre; lo zio Ernesto, un famoso comico televisivo; e sua moglie Marisa: una donna dolce, originale e piena di inventiva. Che però un bel giorno muore, sbattendo la testa su un platano dopo aver pestato una cacca di cane, e lascia gli altri membri della famiglia allo sbando.
Dall’altra parte c’è Nino, un ragazzo non troppo sveglio che vive con la madre, abbandonata dal marito molti anni prima. Quando lui torna dalla Germania, per di più con due figlie al seguito, lei muore «stecchita per un colpo al cuore. Metaforico». Ma muore davvero, non solo metaforicamente.
Nino lavora in un bugigattolo nella stazione del suo paese: vende accendini, cornetti e cianfrusaglie varie. Ha la passione per i giornaletti porno, anche se guarda (e ritaglia) solo le facce delle attrici. Marta, archiviato un tentativo fallimentare con l’università, segue lo zio in una tournée che dovrebbe rilanciarlo, dopo anni di assenza dalle scene, ma in realtà lo fa sprofondare in un vortice sempre più cupo che odora di whisky. Finché, per puro caso (o meglio, per un istinto di sopravvivenza mai del tutto sopito), si incatena una serie di eventi che spinge tutti e tre ad andare di nuovo incontro alla gioia.
Davvero un libro dolce, delicato. Leggero, nella migliore delle accezioni possibili. Quella di Calvino, che dice: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». La morte lo è, un macigno. A maggior ragione se è tanto folle e stupida, come quella della mamma di Nino e di Marisa. Ridicola, quasi comica se vista dall’esterno, ma lacerante per chi è costretto a farci i conti.
Anche i macigni più grossi, però, si sgretolano. L’importante è riuscire a non farsi accecare dal dolore, a tenere gli occhi aperti. Perché la felicità e la meraviglia prima o poi arrivano.
Articolo originale qui