Silvana Arrighi su Cabaret Bisanzio

“Il regalo più bello della mia vita me lo fece papà il giorno del mio ventunesimo compleanno, il 30 ottobre del 1991. Lo chiamavo il ‘bugigattolo delle cianfrusaglie’. In realtà non mi regalò proprio il bugigattolo, ma il permesso di lavorarci dentro come un padrone. Era una specie di cubo trasparente, piazzato tra il binario uno e il binario due della stazione di Galletta […].Vendevo un po’ di tutto: portachiavi, penne, accendini, cornini e cornetti rossi, pupazzetti di peluche, mascotte delle squadre di calcio, braccialetti di corda e souvenir, quelle cose divertenti tipo la chiesa di Santa Giuditta dentro una boccia di vetro che se la giri e la rigiri ci nevica su.”

Marta e Nino sono poco più che ventenni nel luglio del ’93. Vivono una vita fatta di poco, l’uno a Galletta, l’altra a Tricello, due piccoli paesi confinanti: sono entrambi parecchio sgangherati, con un bel fardello di dolori sulle spalle. Marta vende fiori nel negozietto del cimitero e possiede un cagnolino che la segue ovunque. Nino gestisce il bugigattolo di souvenir alla stazione ma non è mai salito su un treno; in passato aveva impacchettato le uova delle galline di sua madre per venderle al mercato e poi confezionato cesti di alimentari infiocchettandoli con molti colori, perché “un fiocco solo in un cesto cosi bello rovina tutto”.  A Nino piace fare i pacchetti e metterci i fiocchi, e quando la sua mamma muore ragiona così: “L’avrei impacchettata come Dio comanda […]. Avrei comprato un rotolo gigante di carta lucida da pacco, come quelle dei regali di Natale, tutta rossa, e prima di chiudere il coperchio avrei messo tantissimi fiocchi colorati dappertutto.”

Marta aveva una zia, Marisa, con cui aveva intrecciato un tenero rapporto da quel giorno in cui, non ancora zia, l’aveva aiutata a colorare di blu la coda di un ornitorinco («Dai, colora la coda!» «Ecco fatto. Cosa ne dici?» «Sei uscita un po’ dai bordi» «Non sono tanto brava, eh?» «Sai come fare per non sbagliare più?»«Come?» «Devi tirare fuori la lingua mentre colori. Cosi»); un rapporto culminato nella condivisione di un ospedale dei giocattoli a cui si rivolgevano tutti i bambini del paese e nell’accompagnare insieme a lei lo zio Ernesto in tournée.

Nino aveva un papà, che è partito quando lui aveva sei anni e non è tornato più a casa fino a quindici anni dopo, portando con sé due gemelline bionde da dover amare come sorelle. Nino lo fa, perché è buono ed è ingenuo. Per ingenuità segue un giorno l’ambiguo Enrico Vallelunga e gli si affida inconsapevole.

La penna di Silvia Greco è veloce a destreggiarsi fra avvenimenti e protagonisti piccoli ma immensi allo stesso tempo. Li racconta un po’ in prima (Nino), un po’ in terza persona (Marta). Attraverso dialoghi struggenti e dolcissimi, con fine e paradossale equilibrio mitiga la sproporzione fra il dramma devastante e l’abbagliante felicità, descrive con leggerezza tanto il dolore della perdita, quanto lo stupore del riconoscersi e volersi bene.

«Ciao Marta, sono Nino, (..). Ti ricordi di me?»
«Come dimenticare la tua camicia verde e gialla! Che mi racconti?»
«Ho visto alla tivù un documentario sulle foglie che d’autunno diventano rosse e poi cadono. Non è colpa del vento. Io non lo sapevo. Tu lo sapevi? »

Peccato che si tratti solo di un romanzo. I personaggi inventati da Silvia Greco, con la loro freschezza, le loro ingenuità e tenerezze, sono persone che fanno più bella la vita e che ognuno desidererebbe incrociare lungo la sua strada. Almeno ogni tanto.

Silvia Greco, “un’imprecisa cosa felice”, pp.192, € 14.00, Hacca, 2017.

Giudizio: 5/5

Articolo originale qui: http://www.cabaretbisanzio.com/2017/03/21/imprecisa-cosa-felice-silvia-greco/